Sembrava una data così lontana, quel 23 Luglio, ma ora che è passata sento che è successo troppo in fretta, che ho bisogno di altro tempo.
Arrivo in aeroporto con un’ora di anticipo rispetto all’anticipo con cui sarei dovuta arrivare, avevo paura di perdere il volo, di trovare traffico, di un’invasione di cavallette, chi lo sa.
Scoppia un temporale fortissimo. ‘Ecco’, penso, ‘le cavallette!’. Rido da sola della mia scemenza e realizzo che partiremo con un forte ritardo ma niente più.
Il volo Turkish fa scalo a Istanbul ed è pienissimo di persone che vanno lì in vacanza o per lavoro.
Dormo, penso, ascolto e in un lampo mi ritrovo sul volo per Erbil. Realizzo che è tutto vero, sto andando in Iraq e non l’ho detto a mia mamma e che quando lo saprà, al mio rientro, saranno guai seri. 🙂
Accanto a me si siede una bambina col padre, parlano arabo, lei ogni tanto mi guarda e sorride, io sorrido. Linguaggio universale.
Ho deciso di non portare il computer ma un taccuino, di scrivere ogni giorno per fissare momenti, idee, sensazioni. E’ passata una vita dall’ultima volta che ho scritto a mano, e da come scrivo si capisce, le parole sembrano scritte da una giraffa impazzita che cammina su tre zampe a saltelli, una cosa così.
L’avvicinamento a Erbil è stato turbolento, un vento molto forte e la bimba accanto a me, dolcissima, si è sentita male, era verde poverina.
Scesa dall’aereo realizzo di essere arrivata in Kurdistan e che il mio visto vale un mese, ‘quasi quasi ci rimango davvero’, penso. Passando il controllo passaporti mi guardo intorno e sono l’unica donna che sta viaggiando sola ma è un pensiero che non mi smuove granché, anzi, mi sento dannatamente bene.
L’aeroporto internazionale di Erbil è nuovo, moderno, ha la decima pista al mondo per lunghezza ed è stato costruito nel 2003 accanto al vecchio aeroporto militare dal Governo regionale del Kurdistan.
Come in tutte le storie di aeroporto che si rispettino, vado al ritiro bagagli e aspetto.
Mentre scorrono le valigie e le persone ritirano le proprie penso a quanto ormai sia “normale” questo gesto di attesa ma ancora carico di tanti significati, quanti le cose che sono dentro ad ogni bagaglio e che identificano le tante vite che rappresentano.
Mi avventuro all’esterno e cerco un taxi, soffia un vento caldissimo, secco ma davvero forte. Ancora non lo sapevo ma mi sarei subito abituata anche a questo. L’autista parla pochissimo ma sorride tanto, anzi ride nel vedermi con la mia valigiona rossa e la faccia altrettanto rossa per il caldo. Dovrò essergli sembrata buffissima. Il taxi ha il wifi, e riesco a collegarmi la prima volta dalla mia partenza anche se non ne sentivo davvero il bisogno, di collegarmi intendo, sentivo di voler mantenere quella sensazione di essere in una bolla senza rete.
Mi faccio portare in quella che sarà la mia casa per questi giorni.
Dal taxi osservo la città, per la mia prima volta ad Erbil e penso a quanto sia moderna, piena di luci e persone indaffarate come ogni altra città del mondo, a quanto sia “normale” ma al tempo stesso originale.
Scorrono le case basse e tradizionali insieme a grandi grattacieli e palazzi.
Mi fermo un momento per fare una piccola digressione e raccontare come mai sono arrivata fino a qui. Leggete questo.
Ho conosciuto Karim Wasfi ad Abu Dhabi, nel corso del Culture Summit, che ha visto la partecipazione di professionisti, leader, diplomatici del mondo delle arti, media, public policy e tecnologia per identificare strade con cui la cultura possa accrescere la consapevolezza verso il patrimonio e promuovere un cambiamento positivo. In questa atmosfera di internazionalità, il suo messaggio mi è arrivato insieme ad una forte sensazione di voler fare qualcosa per trasmetterlo, per invadere il mondo con parole, e musica, di Pace.
Gli ho chiesto che cosa lo avesse spinto ad intraprendere questo difficile percorso ma, in fondo, la risposta la conoscevo già: il bisogno di abbattere barriere, di creare ponti, di trovare un equilibrio per il proprio Paese e, soprattutto, per le Persone.
“Culture has no borders” è stato il claim di Invasioni Digitali della scorsa edizione, forse anche per questo ho sentito da subito una grande affinità con il progetto di Karim Wasfi.
Dopo aver parlato dei rispettivi progetti e sogni è sembrato assolutamente naturale organizzare il mio viaggio in Iraq, per unire le forze.
Yuppieeee, vado in Mesopotamia!!! è stato il mio primo pensiero e la mia esperienza di liceale classica è riaffiorata ingombrante. Mi scorrono i ricordi di tutte le interrogazioni a scuola in un lampo.
Torniamo a Erbil, la capitale del Kurdistan, anche nota come Arbil o Irbil e chiamata Hawler dai Curdi (Kurdish: ھەولێر Hewlêr; Arabic: أربيل ), è la città più grande del nord Iraq.
Prima mi aspetta la cena, finalmente dopo il viaggio. Ero curiosissima di provare la cucina curda e irachena e anche affamata direi. Le mie aspettative sono state ampiamente ripagate!
La loro cucina ha radici profondissime e lontane nel tempo, difficili da decifrare dal momento che parliamo di periodi relativi ai Sumeri, Assiri e Babilonesi, con influenze portate nei secoli dalle migrazioni dall’India, dall’Africa e altre parti del mondo.
Sarà che, guardandolo nel piatto, vedo in questo cibo tutta la maestosità del Tigri e dell’Eufrate, ma sa proprio di buono, ancora prima per gli occhi e il naso che per la bocca.
La loro cucina utilizza molte spezie, come è facile immaginarsi per una cucina araba, e i piatti principali sono a base di carne di capra, manzo, agnello, pollame, verdure e riso. Il Kebab la fa da padrone, come lo shis-kebab che è uno spiedino di carne di agnello, pollo o manzo alternati a cipolle e peperone, ma nel pasto non possono mancare l’Humus, il Tabuleh (grano cotto e macinato con verdure) e piatti di verdure crude dove immancabilmente c’è della cipolla. Insieme a questi ho assaggiato una zuppa di lenticchie e una di fave, i falafel, yogurt e delle patate ripiene di carne, le Kubbat Puteta Chap. Il tutto servito in piatti che vengono condivisi da tutta la tavolata, utilizzando un pane tondo morbido come posata, il Samoons. Magari parlerò in un altro post di tutti i piatti che ho assaggiato, l’argomento merita un’attenzione a parte! Mi sono vergognata di fare la turistona fai da te e ho evitato di fare foto al cibo, almeno la prima sera…ma poi mi sono rifatta nei giorni successivi.
A cena la conversazione è immancabilmente entrata su temi legati alla situazione del luogo, all’Isis, a Saddam Hussein, alla distruzione di Mosul ma anche alla irrefrenabile voglia e spinta a ricostruire. Lo respiri dalle loro parole, ti fanno sentire subito parte di questa emozione che li porta a guardare avanti, al futuro che è già lì, a teste che non si sono mai abbassate ma orgogliose hanno combattuto e continuano a farlo, per ripartire.
Sono riuscita a fare anche un po’ la turista ad Arbil, non avendo molto tempo questa volta ho scelto di visitare la Cittadella.
Mi accompagna l’assistente di Karim Wasfi, Maryann, una buffa coincidenza!
Sono riuscita a fare anche un po’ la turista ad Arbil, non avendo molto tempo questa volta ho scelto di visitare la Cittadella.
Mi accompagna l’assistente di Karim Wasfi, Maryann, una buffa coincidenza!
Arbil è una città antichissima, il primo insediamento si ritiene possa risalire al 4500 – 3000 a.C.
E’ stata costruita lungo le grandi rotte commerciali che dalla Mesopotamia portavano verso l’Anatolia, la Siria e l’Iran e per questo è sempre stata una meravigliosa miscela di popoli, culture, tradizioni diversi.
Fu proprio nei pressi di questa città che Alessandro Magno, nel suo percorso attraverso l’Asia, si scontrò e vinse contro l’esercito di Dario III durante la battaglia di Gaugamela, o di Arbela.
Eccolo qua il liceo classico, bentornato. 🙂
Arrivando dalla piazza centrale del bazar sono stata travolta dalla maestosità della Cittadella, alta 30 metri, appoggiata su una collina artificiale formata dalle stratificazioni degli insediamenti precedenti. C’è un sole splendente, nell’aria si respira un caldo a cui non sono abituata ma che mi diventerà presto familiare, e che avvolge la cittadella in una nuvola di immagini un po’ sfocate, giallastre, quasi mitologiche.
L’aria calda ti entra nel naso mentre respiri, insieme alla polvere e alla sabbia portate dal vento, e ti dà quella sensazione di trovarti in un luogo ancora sconosciuto, di essere la prima persona ad essere arrivata laggiù.
Cerco con gli occhi la salita per l’ingresso e mi dirigo svelta verso l’arco d’entrata.
La Cittadella è stata continuativamente abitata fin dalla sua creazione e, camminando per i suoi vicoli, si percepisce la sensazione di trovarsi in un luogo millenario, un Oriente di porticati, cortili, capitelli e ville decorate che raccontano storie meravigliose. La cosa particolare è che la cittadella non ha mura vere e proprie, il suo perimetro è formato da altissime case, con finestre posizionate nel punto più alto così le mura sono le case stesse, circa cento tutto intorno alla collina.
I vicoli hanno un andamento ad albero, che parte dall’ingresso principale e unico della città, molti sono disposti in modo da essere in ombra durante le ore più calde del giorno, così da poter dare un po’ di refrigerio ai cittadini.
Le case all’interno sono circa 250 e la più antica, attualmente, è il Qala’Hammam, che risale al 1775.
Non c’è evidenza delle case risalenti al 16° e 17° secolo perché la Cittadella è stata oggetto di costruzioni e ri-costruzioni continuativamente: ancora oggi è oggetto di recupero e in molti angoli si vedono cantieri e lavori in corso e questo ti dà la sensazione di trovarti in un luogo vivo, che sta cercando di rinascere dalle proprie macerie, di recuperare quel passato maestoso che si respira ancora camminando per i suoi vicoli.
Molte delle case sono costruite in mattoni, su due piani, e hanno un cortile sul davanti. Il piano superiore era il piano “nobile” dove venivano anche ricevuti gli ospiti, mentre il piano inferiore veniva utilizzato come magazzino o per fare la siesta.
Con questo caldo capisco perfettamente come mai ci fosse un piano dedicato alla siesta!
Quelle che sembrano essere di origini più “ricche” hanno delle bellissime arcate, soffitti con travi in legno e decorati.
Al centro della Cittadella mi trovo davanti la Moschea, la Mulla Afandi, la moschea del venerdì.
Queste moschee erano usualmente costruite al centro delle città e avevano un ruolo molto fondamentale di aggregazione e preghiera nell’importante giorno del venerdì, appunto.
Quella che vediamo oggi è una ricostruzione perché fu demolita completamente nel 1957.
Poco lontano trovo un Hammam, risalente al 1775, che veniva utilizzato dalle donne fino alle 11.00 di mattina e poi dagli uomini. Era il luogo dove si stringevano accordi commerciali, amicizie e, sicuramente, si faceva molto gossip! Era costituito da tre sale, con differenti temperature dalla più fredda alla più calda: Barrani, Wastani, Jawani, quest’ultima sormontata da una cupola con aperture per far entrare la luce.
Camminando incontro due ragazzi che si stanno facendo delle foto, guardo meglio e mi accorgo che uno dei due sta cercando di “prendere” con due dita l’asta della bandiera dietro le case ed è subito sindrome da Torre di Pisa!
Li guardo e rido, mi guardano e ridono e tornano all’esperimento finché, soddisfatti del risultato, non si incamminano di nuovo. Tanto per essere originale dico “tutto il mondo è paese” e penso a quanto sia bello viaggiare e scoprire quanto le differenze siano solo delle parole.
La Cittadella fu saccheggiata nel 1258 dai Mongoli e questa ferita, purtroppo, non si è rimarginata tanto da essere l’inizio di un lento declino i cui segni si possono respirare ancora oggi.
Moltissimi interventi sono stati eseguiti per la preservazione della Cittadella, già nell’aprile 2014 è stata inserita dall’UNESCO tra i beni tutelati mentre oggi si occupa della sua salvaguardia la High Commission of Erbil Citadel Revitalization (HCECR) e gli interventi comprendono, ad esempio, il bellissimo Museo dei Tessuti Curdi dove mi sono persa per due ore.
Il Museo dei Tessuti Curdi presenta una collezione incredibile di tappeti, abiti, stoffe, oggetti fatti a mano utilizzati dal popolo Curdo, sia stanziale che nomade e ha l’obiettivo di preservare e promuovere il patrimonio culturale delle tribù Curde per non perderne la memoria di tradizioni che definiscono un popolo intero.
E’ una sorta di museo della civiltà contadina, con attrezzi agricoli in mostra, culle per i bambini e oggetti casalinghi di uso quotidiano.
L’odore che senti appena entri è quello che sentivo da bambina quando entravo a casa dei miei nonni, dove c’erano tappeti ovunque e la fantasia volava con i tappeti quando, seduta, giocavo con i modellini di moto in ferro e gomma che il nonno mi portava dall’Africa, dicendomi come fossero stati fatti apposta per me in quel continente lontano.
I cappelli tradizionali curdi sono stupendi, ognuno rappresenta i colori di una specifica tribù, e sono composti da due parti, la coppolina (klow) e il turbante (hewri).
Il turbante veniva avvolto intorno alla testa in modi diversi ma sempre in modo da lasciare ben visibile la coppolina.
Ho anche provato a capire la tecnica con cui veniva avvolto ma con risultati quasi peggiori di quando ho provato in India ad indossare il Saree.
Sono negata. 🙂
Al piano superiore ho trovato una grande sala con tappeti a terra e divanetti rivestiti di velluto, tutto coloratissimo in rosso, verde, giallo e un quartetto tradizionale che suonava: una pausa ci voleva, mi siedo e ascolto musica bevendo Chai.
La curiosità, però, è sempre dietro l’angolo e non potevo non chiedere ai musicisti i nomi di quegli strumenti così diversi e uguali a quelli a cui siamo abituati e loro, sempre col sorriso, si sono fatti riprendere mentre ne pronunciavano i nomi.
C’è anche un piccolo museo delle pietre dove trovo una pietra molto particolare, che sembra normale ma non lo è, perché ha assistito all’uccisione di 5000 Curdi, come recita una targa che la precede. Ti arriva un bel pugno nello stomaco, uno bello forte.
Ora di riprendere il cammino e scendo nuovamente nella piazza del Souk, pienissima di vita, persone, botteghe, caffè, locali dove poter mangiare.
Una miscela di odori e profumi che ti travolge, e di suoni soprattutto, dalle voci delle persone, dei bambini che giocano, delle macchine che passano lì davanti.
Mi ferma un negoziante offrendomi di assaggiare uno dei suoi dolci, una delle cose più buone che abbia mai provato, e in due secondi mi ritrovo seduta dopo averne ordinato ancora.
I Baklava, dolcetti fatti di pasta filo e ricoperti di sciroppo e miele ma anche biscottini al pistacchio che altro che scatola di cioccolatini di Forrest Gump. Quando li metti in bocca hanno una consistenza morbida e spugnosa allo stesso tempo, burrosa, e ti si appicciano alle mani per il tanto miele che li ricopre.
Il locale è un corridoio lungo, ci sono delle seggioline rosse appoggiate alla parete e, se ordini, arriva qualcuno a portarti un piccolo tavolino dove appoggiare le cose da mangiare e bere.
Fa caldo dentro, appena varchi la soglia vieni investito dall’odore forte dei dolci come quando passi davanti ad una panetteria la mattina presto e senti il profumo del pane appena sfornato.
C’è la gara ad accaparrarsi il posto vicino al ventilatore, ma anche solidarietà fra gli avventori così ci ritroviamo tutti seduti dalla stessa parte al fresco mentre l’altra rimane vuota in una immagine in cui sembra che siamo venuti insieme, parte dello stesso gruppo. In fondo questa sensazione mi accompagnerà per tutto il viaggio.
Mi ferma un negoziante offrendomi di assaggiare uno dei suoi dolci, una delle cose più buone che abbia mai provato, e in due secondi mi ritrovo seduta dopo averne ordinato ancora.
I Baklava, dolcetti fatti di pasta filo e ricoperti di sciroppo e miele ma anche biscottini al pistacchio che altro che scatola di cioccolatini di Forrest Gump. Quando li metti in bocca hanno una consistenza morbida e spugnosa allo stesso tempo, burrosa, e ti si appicciano alle mani per il tanto miele che li ricopre.
Il locale è un corridoio lungo, ci sono delle seggioline rosse appoggiate alla parete e, se ordini, arriva qualcuno a portarti un piccolo tavolino dove appoggiare le cose da mangiare e bere.
Fa caldo dentro, appena varchi la soglia vieni investito dall’odore forte dei dolci come quando passi davanti ad una panetteria la mattina presto e senti il profumo del pane appena sfornato.
C’è la gara ad accaparrarsi il posto vicino al ventilatore, ma anche solidarietà fra gli avventori così ci ritroviamo tutti seduti dalla stessa parte al fresco mentre l’altra rimane vuota in una immagine in cui sembra che siamo venuti insieme, parte dello stesso gruppo. In fondo questa sensazione mi accompagnerà per tutto il viaggio.
Rifocillata e sazia faccio una passeggiata lungo il porticato che costeggia l’edificio dove si trovano le botteghe e dove si può comprare di tutto, dalle schede telefoniche, ai gelati, all’abbigliamento, alle valigie, alla frutta. Dalla galleria, se alzi gli occhi, sei sempre accompagnato dalla Cittadella che ti osserva.
Camminando mi accorgo che ci sono tre bambini che mi stanno guardando e sorridono, allora ricambio il sorriso, cosa che probabilmente non si aspettavano perché sono scappati via come fulmini.
Mi ha fatto molto ridere pensare a cosa potessi sembrare loro, una turista fai da te, accaldata, in mezzo a quel bellissimo caos di persone e voci.
Camminando mi accorgo che ci sono tre bambini che mi stanno guardando e sorridono, allora ricambio il sorriso, cosa che probabilmente non si aspettavano perché sono scappati via come fulmini.
Mi ha fatto molto ridere pensare a cosa potessi sembrare loro, una turista fai da te, accaldata, in mezzo a quel bellissimo caos di persone e voci.
Fa molto caldo per cui le strade sono deserte o, meglio, i vicoli di questo quartiere dove il tempo sembra si sia fermato ma la storia la si legge sui muri anche grazie ad alcune scritte che mi hanno particolarmente colpita.
“The antidote to fifty enemies is one friend”
Qui ti rendi conto che non dovresti augurarti che la vita fosse più facile ma di essere una persona migliore.
Fa molto caldo per cui le strade sono deserte o, meglio, i vicoli di questo quartiere dove il tempo sembra si sia fermato ma la storia la si legge sui muri anche grazie ad alcune scritte che mi hanno particolarmente colpita.
“The antidote to fifty enemies is one friend”
Qui ti rendi conto che non dovresti augurarti che la vita fosse più facile ma di essere una persona migliore.
Fa molto caldo per cui le strade sono deserte o, meglio, i vicoli di questo quartiere dove il tempo sembra si sia fermato ma la storia la si legge sui muri anche grazie ad alcune scritte che mi hanno particolarmente colpita.
“The antidote to fifty enemies is one friend”
Qui ti rendi conto che non dovresti augurarti che la vita fosse più facile ma di essere una persona migliore.
Devo rientrare, il viaggio continua e ho ancora tante cose da fare ma questo ve lo racconto nella prossima puntata!